Vidi Deum

 

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Andrea Pellegrini, Mirabolanti avventure di un jazzista

"Geniale!" (Enrico Rava)

Livorno, Erasmo, 2014 ISBN 978-88-98598-13-7 Pagine 87

(+ Cd Modigliani - Il tratto, l'Africa e perdersi, Erasmo Edizioni - Il Poderino della Gioiosa, con Quintetto di Livorno, Tino Tracanna sax, Tony Cattano trombone, Andrea Pellegrini pianoforte, Nino Pellegrini contrabbasso, Michele Vannucci batteria. Musica di Andrea Pellegrini ispirata ai quadri e alla figura di Amedeo Modigliani)

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©    Andrea Pellegrini, Erasmo Edizioni, Livorno

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* * * * *

La nostra piccola Tv a vapore regalata da qualche parente un po’ meno povero spara notizie per una volta interessanti. La tavola intanto pian piano si apparecchia da sé, come accade nelle case dove ci si vuol bene. Ceniamo sempre con la Tv spenta ma stasera non riesco a spengerla, c’è qualcosa nell’aria.

Ettore, che probabilmente vede bene la mi’ sorella e che non fa male a nessuno, è a cena da me dopo le prove con i Coalition, la band che mi salvò la vita invitandomi a suonare e mi convinse a fare il musicista “di lavoro”. “Cena”?Non ricordo di aver mai visto Ettore mangiare. Oggi, poi, non fuma più.

Hai smesso?”

No, ho finito”.

Damiana è mediamente allarmata come ogni volta che un musicista jazz viene a cena da noi perché sa che può accadere di tutto, ma non irritata perché sa anche che una parte di sé, quella che sarebbe diventata in qualche modo musicista o cantante (che è quasi uguale, in fondo) se una gravidanza precoce non l’avesse distratta un attimo, è più vicina ai musicisti che non alle persone normali. Cerco di mediare come sempre, come faccio da quando papà se ne è andato, convinto che mi abbia in qualche modo nominato Mediatore Ufficiale, ma non ce n’è granché bisogno perché i minuti scorrono che è un piacere senza nessuno di quei gravi incidenti da galateo violato che capitano quando un batterista jazz entra in una casa che cerca di essere normale. In fondo quello che sta accadendo è robetta, giochini, piccole sfide, provocazioni da batteristi, appunto. A me in fondo piacciono: fanno restare vivi.

Ettore era così folle che chi crede di essere Napoleone in confronto è Rita Levi Montalcini. Fa da sempre slalom fra le convenzioni del mondo con solenne eleganza. Suona come i grandi: dentro al tempo, contro il tempo, dietro al tempo, davanti, di lato, mai sopra. Lo rispetta.

Il mio piccolo Francesco ruzza. Pian piano Damiana ed io lo convinciamo a venire a tavola. La mia piccolissima Chiara avvia la pappa con la solita gioia (ama il cibo e le cose belle della vita). Ettore, batterista ospite anche stasera di una famiglia quasi felice, naturalmente non mangia: è l’essere vivente che ha bisogno di meno cibo per sopravvivere, è magro da Guinness dei primati. Dove prenda le energie per suonare in quel modo nessuno lo ha mai scoperto. Sta lì come un vecchino, con gli occhi cerca qualcosa da bere, chiacchiera di cose fatali e antiche leggende infilando qualche parola in lingue sconosciute e citazioni bibliche o prese dai dialoghi di Blade Runner. Racconta di quando cenò con Borges e progetta di comprare una macchina, andarsene da Donoratico a Sydney e poi rivenderla e non tornare più. Intanto dalla nostra piccola e vecchia Tv a vapore usata un cronista eccitato urla notizie epocali da Berlino.

 

Stanno per buttare giù il Muro, si urla.

La nostra Tv, me ne accorgo subito, è troppo piccola per contenere questa popo’ di notizia. Mentre guardo il cronista che sbraita da una città che non conosco di cose che conosco appena, inizio a temere che il video si rompa e penso che devo allontanare i bimbi: ho sempre temuto che le Tv scoppino, mi hanno sempre fatto paura. Ho sempre pensato, quando ero piccolo, che altro che finti: i mostri della Tv sono veri, eccome! ho sempre pensato, se stanno nella testa degli imbecilli che li inventano vuol dire che sono veri, sono veri diversi, ma sono veri! Vedrete, avrei detto se il mio look congenito da eterno bambino non mi avesse reso incredibile, vedrete, il grande mostro verrà e avrà a che fare con la Tv, non so come né quando ma vedrete, sarà la Tv a comandare, non papà.

Ma la Tv non scoppia, regge, brava la mia piccola vecchia Tv regalata da un parente meno povero, e continua a sbraitare.

Ganzissimo!”.

Ettore comincia a agitarsi e ad attivare quella parte di sé terrificante per il mondo ma meravigliosa per i suoi amici (io sono suo amico), quella parte capace di capolavori degni di stare a fianco della Gioconda.

E’ un appuntamento con la storia!”.

Io comincio a capire e a temere. Ogni volta che si capisce davvero si teme qualcosa: non è dato di capire senza avere paura, ma io da piccolo non avevo paura a fare il giro della enorme casa di mia nonna Anna da solo al buio per dimostrarlo a papà che mi sfidava per amore, perché amare è sempre chiedere che ci si metta in gioco.

Accidenti, comincio a capire e penso che non so se ho i soldi.

Andrea! Dobbiamo andarci! Subito!”.

Guardo Damiana. Chiara immersa nella pappa come un sub felice si gasa senza avere la minima idea del perché, Francesco con la forchetta alzata intuisce che sto partendo di nuovo ma questa volta non per suonare e pensandoci bene l’idea gli garba e inizia a amare il partire e, forse, Berlino.

Il futuro è un batterista jazz, credici, piccolo. Il resto sono chiacchiere, il futuro è un batterista jazz.

Telefono alle mie sorelle, a Nino, a qualche amico in una tarda adolescenza serale di un musicista babbo che cerca Dio, organizzo qualche babysitteraggio per Chiara e Francesco per la mia assenza, saluto Damiana che ora è inferocita (le donne sono sempre arrabbiate con te, te non sai perché e neanche loro) e dico:

E’ un appuntamento con la storia. Dobbiamo andare”.

Cinque minuti dopo siamo dentro la mia Renault 4 F6, rara, bianca, bella, leggera, sinuosa, lunga lunga, agile, molleggiata, enorme, il mio amore. Mio padre ha avuto solo R4, un po' come il babbo dell'artificiere che trovò Moro.

La Tv sbraita ancora dalle scale e dalle finestre e mi segue come un segugio. Non scoppia.

C’è anche Corrado. Siamo io, Ettore, Corrado, la chitarra di Corrado, la mia giacca a vento di piumino rossa della Salpi perché dice che a Berlino a novembre fa freddo davvero, e basta. Andiamo a cercare Dio.

 

Al confine con l’Austria, altro che perquisirci!, ci fanno andare dentro un garage, bloccano le porte, frugano ovunque, siamo spaventati un po’ dall’arroganza fascista di questi due analfabeti con i cani – un quadro coerente, del resto: il cane è un lupo che ha rinunciato – e un po’ dalle possibili reazioni di Ettore. Corrado suda freddo e sta per piangere quando questi doganieri, inconsapevoli del fascino profondo che suscita il loro ruolo, ispirare racconti e poesie, guardiani di confini, vicini a identità opposte e quindi identiche (...e via e via che ne parlerei per ore), bucano l’interno in peluche della custodia della chitarra con spilloni assurdi, incredibili. Frugano persino in posticini nascosti dell’R4 F6 che non sapevo neanche che esistessero, mi sento violato, ho paura, tremo, maledico Berlino, il muro, anche Dio ovviamente e Ettore e la musica, ma dura poco, poi penso che sono così cretini che non capiscono che più fanno così e più si indeboliscono, loro, e più noi diventiamo forti.

 

Dormiamo a Norimberga in un affittacamere, poi ripartiamo. Facciamo la stradona a quadroni fatta da Hitler. Tutta uguale, tutta grigia. La sera del 9 novembre 1989 entriamo a Berlino. Deve essere il compleanno di Dio.

Una festa interplanetaria. Una fiera su Vega. Il ritorno degli Ulissi di ogni galassia. La più grande tensione mai creata da esseri umani, grandiosa, impossibile, che diavolo succede?, sta accadendo qualcosa di colossale, ora la terra si spalancherà, penso, e i morti risusciteranno, penso, ecco cos’è l’Apocalisse, penso alla Bibbia e a mia madre. Penso che non tornerò più a casa perché non si vede più la strada né la piazza né il mondo. Mi mancano i bimbi e Damiana e il mare, che nel 1989 per me erano tre cose collegate.

E’ tutto nero, è un maledetto inverno mitteleuropeo. Le case, enormi, sono nere, la strada è nera, il cielo è nero, si muore dal freddo e un Maracanà di gente, macchè “un”, “tredici” Maracanà di gente, fitti fitti, guardano dalla stessa parte. Impossibile, sto sognando. No, non sto sognando, sto volando perché vengo trascinato dalla folla e in pochi secondi mi ritrovo davanti al Muro. Non respiro, sono in apnea, nell’aria invece che nell’acqua ma è uguale. Tocco terra coi piedi, finalmente, mi giro e vedo torrette televisive, tanti camion con generatori enormi, gente con quelle classiche facce internazionali che ti fanno sentire che sei fuori dal giro, che tutto accade sempre dove non ci sei ma dico no, questa volta ci sono, la notizia è che io ci sono. Guardami papà, non ho paura.

 

Ieri sono sceso per andare a suonare a Pisa. Giù, in via del Bosco, c’era una Saab rossa colossale con uno svedese sulla sessantina, bello, ovviamente altissimo, in piedi fuori dalla macchina ad aspettare. Non capivo cosa diavolo un sessantenne sanissimo svedese con una Saab rossa colossale potesse aspettare a Livorno in via del Bosco fra il quasi nulla e il mare. Avrei voluto abbracciarlo ma Ettore questa volta non c’era e da solo non ce la faccio, scusa Dio, ancora una volta ho avuto paura degli angeli.

 

Gli angeli guardano il muro e comincio a capire che gli angeli aspettano che il muro si apra. Sono a due, tre metri da Check Point Charlie. Check Point Charlie da quel momento diventa un motto, un proverbio, non so, una formula alchemica, un ritornello magico. Si incide nella mia mente in maniera indelebile. A volte non ricordo cosa devo comprare alla Coop o come si chiama l’allievo della prima lezione del pomeriggio e ogni volta che cerco di ricordare qualcosa il cervello gira, gira e mi urla “Check Point Charlie!” e allora mi ricordo: le banane bio, Leonardo Bittoni alle 15:40, e la vita procede. La memoria torna sempre se pensi a Check Point Charlie.

Io c’ero. Ma non ero lì, ero altrove. Ero dentro al confine e a ovest, ero a ovest e ad est, ero ad est e sul confine.

Ragazzi di vaghe nazionalità ripresi dalla Tv canadese e dalle Tv del resto del mondo picconano il Muro. Per centinaia di metri si capisce che migliaia di persone fanno la stessa cosa. Per poche ore mi sono perso Rostropovich che suonava le Suite: per vendicarmi con il destino anni dopo ho amato una violoncellista.

Ero altrove, dove solo noi, dove solo Ettore poteva trovarsi, eravamo io, Ettore, Corrado, la sua chitarra, la mia giacca rossa e Dio e trecentomila persone in fuga.

 

Fra le picconate si comincia a urlare, a cantare, poi si sente un rombo. Una ruspa, un trattore, non lo so, qualcosa apre un buco nel Muro, una breccia geometricamente perfetta, un taglio a forma rettangolare ma non in questo, nell’altro Muro, perché erano due, e un formicaio di gente triste vestita uguale proveniente da un Lager si avvicina da un posto buio e lontano eppure vicino e comincia da laggiù a venire verso di noi, si vede dal Check Point guardando ad est. Poi un trattore o un camion enorme o una ruspa o una gru fa un buco nel nostro, di muri, che i muri sono sempre due, e i muri si fanno sempre in due, e Ettore declama:

Siamo all’appuntamento con la storia! Io ho visto cose che voi umani…”

...ma non finisce perché gli si illumina il viso: Ettore non mangia, non beve, campa d’aria, non so come fa, è sempre bianco e magro eppure ora gli si illumina il viso; capisco che ha un’idea micidiale (io naturalmente ho paura, ma una paura che ormai conosco) e urla:

Andiamo!”.

E facciamo la cosa che mai essere umano aveva fatto prima e che nessuno ha fatto mai più, cioè entrare a Berlino Est da Check Point Charlie la sera del 9 novembre 1989.

In paradiso c’è una gran poltrona verde comodissima con una targa sul muro sopra, come si usa lassù per i casi speciali, accanto a quella di Archimede, di Marie Curie, di Charlie Parker e di quelli che hanno inventato delle cose belle avvicinandosi a Dio e che Dio tollera accanto, così, per amicizia. C’è scritto “Ettore Fancelli, inventore”.

Entriamo. Nessuno bada a noi. Chi andrebbe a Berlino Est la sera dal 9 novembre 1989? Siamo a Est e a Ovest, nel passato, nel presente e nel futuro insieme, in mezzo e più in là, siamo dentro il tempo, siamo davanti e dietro, accanto e sopra al tempo. Amo i batteristi.

Tutto il mondo sta guardando da un’altra parte. Noi, topi di fogna, paria dimenticati, esseri inesistenti, miserabili musicisti di jazz che pensano sempre, poeti e navigatori e artisti insieme, quintessenza dell’arte per l’arte, inguaribili cercatori d’oro, illusi, romantici, innamorati di viaggiare e di vedere cose, guardiamo il mondo.

Come astronauti, vediamo il mondo da lontano e lo vediamo com’è, e lo raccontiamo, ma non ci ascoltano. La gente indica la Luna e si guarda il dito, dicevano; oggi la gente indica direttamente il proprio dito con l’altra mano e spesso chiude proprio gli occhi così fa anche prima. Noi raccontiamo questo e tutto il resto.

Noi guardavamo loro e guardavamo anche chi li guardava. Ho visto le facce, li ho toccati, come in una rissa casuale, erano tutti vestiti uguali, tutti con i jeans, ma jeans di tanti anni prima, migliaia, stanchi come se non dormissero da vent’anni, tutti affamati, questa è la verità, la pura verità, io c’ero ed ero dove nessun altro è mai stato a parte Ettore, Corrado, la sua chitarra e Dio.

Andiamo ancora avanti ma la folla di esuli dall’inferno ci impedisce di andare oltre. Rimaniamo per qualche momento a galleggiare nella “zona della morte”... e ci garba da morire vedere ora Check Point Charlie da est, sembra di vederlo da sott’acqua, come quando ti tuffi e guardi in su e l’acqua era sotto, ora è sopra. Come sono fantastici i corpi delle donne visti da sott’acqua con la luce dietro cioè sopra, come è bella Livorno da lontano, dal traghetto di Capraia che ritorna o dall’aereo! Ecco, così, alla rovescia, diciamo. Poi la folla ci spinge a ovest, noi non possiamo andare oltre così torniamo: torniamo da Berlino Est, torniamo da un posto dove non siamo stati perchè non esisteva più mentre noi ci andavamo. Dei soldati inglesi ci prendono insieme a alcuni dell’est, noi spieghiamo che non siamo tedeschi, siamo italiani, un’informazione incredibile che anche se l’avessero recepita li avrebbe mandati in tilt: cosa ci fanno tre italiani a uscire da Berlino Est la sera del 9 novembre 1989? Ma un urlo eterno ci sovrasta, non si sente niente, si sente solo tutto: tutte le sillabe possibili mai concepite dette e non dette da essere umano in tutte le lingue si levano dal terreno, dalle case, dai muri, dal Muro. Non si sente niente, solo tutto. Così i soldati non capiscono assolutamente niente come del resto è loro dovere, ci scambiano per tedeschi dell’est e ci portano gentili in una tenda militare montata nella zona della morte, soldati inglesi proprio con quegli elmetti tondi dei film che ho sempre pensato “hanno la bombetta anche i soldati!”. Ci mettono addosso delle coperte, penso “grazie, effettivamente, da Livorno a qui, faceva tanto freddo”, ci danno del te’ caldo in bicchieri di plastica bianchi, penso “sono tutti uguali i bicchieri di plastica”, ci offrono biscotti e penso “imbecilli” non so perché. Noi stiamo al gioco: un jazzista o sta al gioco o muore.

Nella tenda, due soldati inglesi, tre jazzisti italiani e un via vai di profughi bianchicci, stanchi da secoli, commossi, urlanti, ciancianti, barcollanti, ubriachi, ubriachi, ubriachi. D’aria.

 

Usciamo dalla tenda. Siamo a Berlino Ovest, siamo liberi. Anche noi.

Frastornati, dopo aver toccato Dio ci viene in mente che non abbiamo idea di dove dormire e che ovviamente abbiamo appena i soldi per il ritorno più quelli per un panino, forse. Ci sediamo. Passa un angelo, ci chiede chi siamo, noi raccontiamo, quella capisce poco, naturalmente, neanche noi capivamo, figuriamoci lei, e ci dice venite da me. Dormiamo a casa sua in terra, lei dorme con il marito in un letto su un soppalco, la mattina ci alziamo, vediamo Berlino Est e la fermata della Metropolitana della porta di Brandeburgo ferma da decenni e rimasta come incartata nella plastica, congelata, immobile. E’ il mio compleanno. Non male, avere il compleanno nel giorno dopo il compleanno di Dio.

La sera ceniamo in cima al ristorante della torre di Alexander Platz, alta a livelli incredibili. Un elicottero ci passa sotto, il ristorante girevole della torre gira e ci mostra Berlino Ovest e Berlino Est a turno, continuamente. Sto sognando, no, non sto sognando, è tutto vero, mi guardo intorno e rifaccio il conto: ci siamo tutti: Alexander Platz, l’elicottero, Berlino, Ettore, Corrado, la sua chitarra, la mia giacca rossa di piumino della Salpi, e Dio.

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