Appunti di Andrea Pellegrini e tratti dalla biografia di Paul McCandless
Paul McCandless è riconosciuto come il più grande oboista di jazz di tutti i tempi e uno dei maggiori jazzisti viventi.
"...Di estrazione classica, si è avvicinato al jazz durante le scuole medie attraverso il sax mentre studiava oboe, il suo strumento principale. Proprio il suo insegnante di oboe, Robert Bloom..." (già 1° oboe nella New York Philarmonic con Toscanini!) mostrando un’apertuta mentale ancora oggi rara in Italia negli ambienti delle scuole di musica lo spinse a frequentare anche il percorso jazzistico e a praticare i due strumenti insieme. Questa esperienza pose le basi per la personalità musicale di Paul, da sempre fondata sul polistrumentismo e sul rispetto e l’amore per tutte le musiche.
"...Continuando gli studi alla Duquesne University e alla Manhattan School of Music, Paul ha iniziato la sua carriera suonando con la Pittsburgh Symphony al Carnegie Hall e alle Nazioni Unite a 19 anni e piazzandosi come finalista alle audizioni per Corno Inglese alla New York Philarmonic nel '71. Sempre su consiglio di Robert Bloom, nel 1969 si è unito al leggendario Paul Winter Consort...", primo gruppo che tentasse di coniugare stili del jazz con idee, tecniche e sonorità classiche ed etniche anche sull'onda degli esperimenti della "Third Stream", la terza corrente di Gil Evans e soci. Questo gruppo è ancora attivo dopo quasi mezzo secolo.
“Fino a quel periodo l'improvvisazione e la musica classica erano due settori completamente separati...".
"...Durante la militanza nel Paul Winter Consort, Paul dette vita così a quella che chiama "una grande alleanza personale" con il chitarrista – pianista Ralph Towner, il contrabbassista Glenn Moore e il multistrumentista Colin Walcott..." (tristemente scomparso poi in un incidente d’auto in Germania durante un tour con gli Oregon, sostituito con il percussionista indiano Trilok Gurtu e, oggi, il fenomenale batterista Mark Walker, già attivo con Claudio Roditi) "...con la quale formò, nel 1970, gli Oregon". Un altro ingrediente, quindi, essenziale nella produzione artistica di Paul e degli Oregon è la continutità: essi stanno insieme da 40 anni (oggi, con Paolino Dalla Porta al contrabbasso). Questo è un altro elemento sempre meno diffuso nella musica italiana, precaria, debole e legata a isterie e a capricci di artisti quanto di finanziatori.
La novità, negli Oregon, non stava tanto nel tentativo di coniugare diverse tecniche e stili già affrontato con alterni successi dalla Third Stream e dal Paul Wintrer Consort e legato anche alle rivoluzioni sociali, artistiche e culturali del ’68, quanto nell’unire concretamente musicisti e strumenti provenienti da aree ancora separate come la musica classica, la musica etnica e il jazz e lavorare per una sintesi artistica credibile, coerente e potentemente espressiva. In questo, gli Oregon non sono un prodotto degli anni ’60 ma anticipatori del terzo millennio: la loro è una delle musiche che ha senso fare oggi. Nella Third Stream, i musicisti di jazz incontrano i codici della musica “accademica”; negli Oregon, musicisti appartenenti a aree diverse creano un nuovo, unico stile. Per questo, gli Oregon sono considerati i pionieri della “World Music Fusion” che niente ha a che vedere, precedendola di decenni, con la World Music né con la Fusion.
E’, quella degli Oregon, come la musica di Mingus del resto e di molti altri musicisti del ‘900 legato al Jazz, una corrente che non ha fatto molti proseliti, essendo facilissimo cadere nei tanti tranelli che attendono chi vi si avventura: scadente risultato artistico, evidente frattura fra elementi musicali rozzamente giustapposti, difficoltà pratiche e teniche derivate dalla fusione di stili e codici di diverse aree temporali e geografiche, trascuratezza nella cura dei singoli codici. Gli Oregon invece ci riescono benissimo e la sensazione che si ha quando si ascolta la loro musica è che sia musica etnica di un paese che non c’è. Una bellissima sensazione. Possono piacere o non piacere, ma sono credibili e sono dei grandi artigiani. Il Jazz italiano, legato a stereotipi e appartenenze ideologiche oggi forse poco meno di ieri, guarda ancora troppo spesso con imbarazzo alla loro esperienza; nel nuovo, importantissimo libro di Stefano Zenni sulla storia del Jazz, di cui si sentiva la mancanza da decenni (Storia del Jazz - Una prospettiva Globale, ed. Stampa Alternativa) incredibilmente non c'è praticamente traccia della loro esperienza! A volte non si sa collocarli: cosa fanno? E li si etichetta frettolosamente. Troppo jazz italiano non ascolta. E si imbarazza se si diverte, perché spesso non è ammesso divertirsi davvero: si deve troppo spesso corrispondere a degli stereotipi: la morte, per l’arte. E’ in questo senso che il Jazz è morto: muore ogni volta che lo si fa (o lo si ascolta) con pregiudizio. Invece non è morto, se si ascolta.
Il loro bassista storico (Glen Moore) era un bassista Jazz dotato di swing, di suono, di cavata, ma manovrava benissimo l’arco; ama e conosce Dragonetti e Bottesini quanto Mingus e Scott La Faro. I fiati li suona tutti Paul; un grande oboista classico, ha intonazione, conoscenza, espressione, capacità di gestire le frasi, e si fa le ance da solo con la sgorbiatrice come qualsiasi buon oboista; come sassofonista, provate a chiedergli di improvvisare su My Favorite Things: dovrete chiedergli di smettere dopo 40 minuti - a me è successo; come clarinettista basso sta fra Bob Mintzer e Eric Dolphy ma ha il suono del fagotto nel registro acuto del concerto per pianoforte e orchestra in Sol di Ravel; se suona i flauti dritti, come il penny whistle costruito da un suo amico californiano, pare un elfo uscito dalle selve del nord dell’ Inghilterra. Ralph Towner è un chitarrista che ama Bill Evans. I percussionisti che si sono alternati nel quartetto hanno sempre portato un contributo essenziale e vario, suonando Djembè e batteria come se fossero la stessa cosa, e tabla, talkin’ drum, rototom anni ’70 e ogni diavoleria che sia possibile percuotere, comprese le zucche acquatiche di Trilok Gurtu.
Se questo vi pare una gran confusione, beh, siete sulla strada giusta, perché la musica degli Oregon è una Grande Con / Fusione. Francamente non riesco a pensare alla musica, oggi, in nessun altro modo. Chi sta sulla riva del proprio lago pensando che sia il mare si perde la meraviglia del mare. Eppure basterebbe che assaggiasse l’acqua per capirlo. Chi sta sul mare, sa che le sue sponde sono condivise.
Credo che il jazz sia questo da sempre, a dispetto delle logiche di appartenenza e ideologiche dei critici che lo massacrano.
Da quando faccio il musicista lotto contro steccati, invidie, mentalità provinciali, tendenza continua alla fratturazione, alla atomizzazione di ogni energia, di ogni progetto: contro precarietà croniche la cui responsabilità è solo in parte dei nostri amministratori pubblici, tra i peggiori dell'occidente da decenni (e ormai ignari delle reali esigenze dell’arte e della musica, a livello di barzelletta, quasi del tutto incompetenti nelle arti e nello spettacolo e quasi sempre legati a logiche nepotistiche, affaristiche, opportunistiche o semplicemente, profondamente ignoranti): ma una grande responsabiltà ce l’hanno i musicisti. Troppo spesso incapaci di stare insisme, di progettare, di rimanere insieme, di crescere insieme, di crederci. Paul e gli Oregon sono un esempio del contrario. E la loro musica, che ripeto, può non piacere come tutto nella vita (pensate che c’è chi ama Giovanni Allevi) è un segno dei valori che testimoniano; senza volerlo, intendiamoci, cioè nel modo migliore.
Può sembrare strano notare che, stando a quanto dichiarano essi stessi, uno dei riferimenti artistici principali degli Oregon sia Bill Evans. Invece non è strano se si considera, come evitano di fare puntualmente quasi tutti i critici di Jazz nostrani, la radice europea della sua formazione (radice presente nella storia anche di Ellington, Davis, Monk, ma anche Quincy Jones e quasi tutti i jazzisti): di madre russa, musicista, Bill Evans si avvicinò, prima di Davis, alle modalità della musica sacra ortodossa riscoprendo uno dei numerosissimi contatti fra il Jazz, fenomendo multietnico e cosmpolita da sempre, e la musica europea e mediorentale. Il quintetto di Davis con Bill Evans era, così, multietnico. Chi ancora afferma la natura esclusivamente “negrocentrica” del Jazz dice una cosa falsa ed è indietro di 40 anni sulla conoscenza del più grande fenomeno musicale del ‘900 che appartiene all’Europa quanto all’Africa e alle Americhe. Il Jazz è di tutti e da subito. In Italia una lettura politicizzata, ideologica del jazz, per niente basata su conoscenze e interpretazioni tecniche né basate su fatti oggettivi (la stragrande maggioranza dei critici italiani di Jazz non ha studiato musica e non sa suonare una sola nota, provare per credere) ha illusoriamente collocato il Jazz in una teca di vetro come un oggetto prezioso legato esclusivamente alla rivolta e alla sofferenza… niente di più falso. Proprio così facendo se ne è fatto una realtà di nicchia. Invece il Jazz è italiano quando africano, ebraico quanto nero ed è legato alla sofferenza quanto alla gioia, al razzismo quanto al New Deal, al crack del ’29 e al contrabbando degli alcolici quanto alle migrazioni e alle deportazioni sei-sette-ottocentesche: è complesso da subito e appartiene a tutti.
Gli Oregon si pongono quindi in una zona interessante dell’universo jazzistico, la zona che confina con Debussy, Ravi Shankar, Puccini, Zawinul, Bill Evans, Jaco Pastorius e molti altri. L’osteria di Brea nel Signore Degli Anelli o i numerosi accrocchi multietnici dei villaggi di Star Wars sono la casa del Jazz. Una casa nella quale amo abitare: affollata e piena di gente diversa.
"...Aggiungendo sax sopranino, penny whistle, flauti etnici, sintetizzatori e Electronic Wind Controller al suo repertorio strumentale di oboe, corno inglese, soprano e clarinetto basso, Paul ha allargato anche la sua attività al di fuori degli Oregon. La sua carriera comprende più di 100 dischi e collaborazioni con artisti come Jaco Pastorius, Wynton Marsalis, Carla Bley, Pat Metheny, Elvin Jones, Mark Isham, Al Jarreau, Bela Fleck, Eberhard Weber, Miroslav Vitous, Jack De Johnnette…"
“Ciò che mi interessa ora è sperimentare forme più lunghe e la sovrapposizione di melodie".
Paul ha ricevuto 2 Nomination al Grammy Award per il doppio Cd “Oregon in Moscow”, fantastico lavoro prodotto dal bassista di Pat Metheny, Steve Rodby, con l’Orchestra sinfonica Tchaikowskij di Mosca. Inoltre, il Cd "1000 kilometers" (2007) degli Oregon ha ricevuto altre 2 Nomination al Grammy Awards, una delle quali per un solo di Paul.
Fondamentale, negli Oregon, è la pratica multistrumentistica. Paul passa con incredibile facilità dalle ance doppie alle ance, ai flauti; Ralph Towner (come del resto Gismonti) dalla chitarra al pianoforte; Colin Walcott praticava violino, sitar e ogni percussione. Questa pratica, al di là dell’aspetto scenico, pure rilevante (perché no?), è dettata dall’ esigenza espressiva di avere un suono orchestrale, vario timbricamente, sempre fresco, diverso. L’approccio orchestrale, più ricco possibile, è una delle caratteristiche degli Oregon e costituisce un ultimo punto di incontro tra Paul e il sottoscritto.
Andrea Pellegrini